IBRAHIMOVIC E L'ADDIO AL CALCIO DEL CAMPIONE CHE HA SEMPRE PRETESO IL FRIGORIFERO PIENO

Zlatan Ibrahimovic è un infinito presente, anche adesso che se ne va. Lo sappiamo tutti, ma sono stati i francesi ad averlo interpretato alla lettera inventando addirittura un verbo, "zlataner", qualcosa che assomiglia a "dominare". Se il termine è quasi intraducibile in italiano, non così il personaggio: evidente, clamoroso, straripante se pure contradditorio e non privo di quell'ombra dalla quale nasce quasi sempre la grandezza di un campione, e forse di un uomo.

Ibrahimovic, l'infanzia difficile nel ghetto di Rosengard

Zlatanare: cioè fare tutto usando l'ego, che è un modo diverso per dire solitudine. Quella di un bambino cresciuto nel ghetto di Rosengard, non slavo, non svedese, solo Ibra. "Puoi togliere Zlatan dal ghetto, non il ghetto da Zlatan". Le sue frasi, ecco la chiave di lettura di un personaggio unico: "Dopo Muhammad Alì, sono io il più grande". Il poster di Alì era appeso dove dormiva Ibra, tolto alla madre dai servizi sociali (la sorella spacciava in casa) e consegnato in custodia a un padre alcolizzato. "Tornavo a casa, aprivo il frigo e pregavo Dio che lì dentro ci fosse qualcosa, invece era sempre vuoto, trovavo solo birra". Da quel giorno, diventato qualcuno, Ibra ha preteso il frigorifero pieno. Portiamo a spasso per sempre il bambino che siamo stati.

Zlatan ha realizzato la deificazione sportiva di sé, e senza accettare contraddittorio ma giocando a pallone come, in effetti, non si fa in questo mondo. La sua parabola di fenomeno ha incrociato Messi e Cristiano Ronaldo, cosa che gli ha impedito di vincere il Pallone d'Oro ("Sono io che manco a lui, non lui a me"), anche perché Ibrahimovic non è mai riuscito a prendersi una Champions, lasciapassare quasi automatico per il più importante trofeo individuale del football (ci sarebbe anche la Coppa del Mondo, come scorciatoia, ma Ibra giocava nella Svezia).

Ibrahimovic e le liti con Guardiola e Conte

"Non posso che compiacermi di quanto sono perfetto": uno sbruffone? Forse, invece, il miglior narratore di sé stesso. Perfetto atleticamente ("Se avessi fatto taekwondo, avrei certamente vinto la medaglia d'oro alle Olimpiadi"), maestro di quella potenza acrobatica che è raramente concessa agli stangoni, mirabile tecnicamente: gol di tacco (all'Italia all'Europeo del 2004, per esempio), gol in rovesciata anche da centrocampo o quasi, gol al volo, gol sempre e ovunque. "Io mio ruolo? Non saprei, ne ho undici". Uomo squadra, capace però di mettersi traverso con gli allenatori, ad esempio Guardiola, ma anche Conte si accorse chi fosse Ibrahimovic quando gli ordinava "pressa, pressa, pressa!". Pare che la famosa frase "Io sono Zlatan, tu chi c... sei?" l'abbia rivolta proprio a lui, anche se dicono si trattasse di una replica, un must che Ibra aveva usato altre volte per chiarire il concetto di una spropositata, ma quasi sempre motivata, autoconsiderazione.

Ibrahimovic oltre il calcio: Sanremo e le pubblicità

La fenomenologia di Ibra è, essa stessa, il più bello dei racconti. Spicca in questo tempo di campioni omologati, costruiti a tavolino e gestiti da algoritmi e social media manager, cosa che Zlatan è stato di sé stesso oltre ad essere molto di più. Un promoter naturale, il più bravo tra i costruttori d'immagine e tra gli agenti (ma adorava Mino Raiola, suo sodale, uno venuto dal basso come lui), un attore vero: per capirlo è sufficiente guardare i suoi spot pubblicitari o i suoi camei cinematografici. Il viso, il corpo, l'espressione, quegli occhi. E la simpatia, perché Zlatan Ibrahimovic è un uomo simpaticissimo. Indimenticabile la sua lunga ospitata a Sanremo, dove si presentò in motorino, per offuscare tutti, da Amadeus ai cantanti. Perché quando arriva Ibra, per gli altri c'è posto solo dalla parte dell'ombra.

Ibrahimovic e il siparietto con Ancelotti

"Chi compra me, compra una Ferrari". Oppure, a Parigi: "Resto al Psg se mettono la mia statua al posto della Tour Eiffel". Un giorno, seduto in conferenza stampa accanto ad Ancelotti, gli chiese: "Tu credi in Gesù?". Carletto rispose di sì, e Zlatan aggiunse: "Allora credi in me e rilassati". Un mito si costruisce anche così, con le parole, purché non ci siano soltanto quelle. Molte ne ha scritte nel suo libro "Io, Ibra", forse la migliore autobiografia di un campione dopo quella di Agassi che però era letteratura, ampia fiction e non saggistica. Leggendo, si capisce quale romanzo di formazione sia stata una vita nei sobborghi di Malmoe, e come sia continuata sull'onda di quel ragazzino attaccabrighe, pronto ad andare all'assalto per non prestare il fianco agli urti dell'esistenza. Aveva il naso grosso, aveva la zeppa e non riusciva a pronunciare la "s": gli mandarono una logopedista a casa, e Zlatan faticosamente imparò. Chi l'avrebbe detto? La lingua più lunga del calcio si attorcigliava nella bocca di un bambino.

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